CatARSi

di Alice Barontini

presentazione della mostra alla Sala dei Putti del Chiostro di San’Agostino a Pietrasanta – 2010

Rispettoso, analitico. Ma anche giocoso e creativo.

Il rapporto con l’arte del passato nell’artista livornese Claudia Cei si sviluppa su due fronti diversi. Da un lato il recupero, ergendo a modello della sua ricerca grandi artisti come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Jan Van Eyck. Dall’altro l’esigenza di rileggere questi grandi “classici” in chiave personale, attraverso un ripensamento che non esclude spesso l’ironia e la raffinata piacevolezza del gioco citazionistico, che non risulta però mai fine a se stesso.

 

L’artista infatti riporta al presente forme e immagini che appartengono al passato, mettendo però in funzione uno “spostamento di tempo” da cui emerge la coscienza della diversità della ricerca rispetto al modello originale.

 

Di solito ad essere reinterpretati sono capolavori della storia dell’arte facilmente riconoscibili anche da un pubblico di massa. Per esempio il Ritratto dei coniugi Arnolfini, realizzato da Van Eyck nel 1434, che diviene spunto per un lavoro di continua riflessione.

 

Come quando l’artista dà vita ad un dipinto olio e acrilico su tavola sagomata, in cui il ritratto del mercante lucchese Giovanni Arnolfini con la moglie Giovanna Cenami viene spogliato dei numerosissimi particolari simbolici fino a ridurre il tutto alle sagome dei protagonisti, con la conseguente assolutizzazione del gesto del giuramento, accompagnato dalla presenza del cagnolino ai piedi della coppia (simbolo di fedeltà) e dai frutti che qui diventano fulcro cromatico del componimento, calato in una dimensione a-temporale in cui regna l’essenzialità e la freddezza complessiva dell’atmosfera.

 

Altre volte invece l’opera di Van Eyck viene riletta in chiave intima ed elegiaca. Succede quando l’artista utilizza una tecnica particolare, che la caratterizza da tempo: dopo aver dipinto su una tela una base di sabbia e acrilico color oro, ricopre tutto con lo stucco bianco, steso in maniera non uniforme per lasciar intravedere la luminosità sottostante.

 

Anche qui, a ben osservare, si coglie una nostalgia della lezione del passato, contraddetto però con consapevole determinazione: l’oro infatti, che ricorda certe icone bizantine, viene corrotto, sacrificato sull’altare della contemporaneità attraverso un manto ruvido e materico di calce. Sopra questa base l’artista interviene con la fusaggine, che regala al componimento un carattere precario, un sapore quasi crepuscolare.

 

Anche in questo caso i coniugi sono ridotti a sagome e la fuga prospettica converge sul gesto vincolante del tenersi per mano. La stanza è resa con poche linee e geometrie e la grande varietà di oggetti, i particolari minuziosi che la caratterizzavano nell’originale, sono ora completamente scomparsi per portare alla luce l’essenza concettuale delle cose. Via dunque le stoffe preziose, via lo specchio, via il rosario e la torciera, il cagnolino e le arance, i calzari e il baldacchino…Via tutto.

 

L’artista è ben consapevole della condizione mutata in cui opera e decide di compiere una selezione soggettiva.

 

Se in Van Eyck era basilare l’attenzione nei confronti del dettaglio, dell’esattezza fotografica, della perfezione formale a testimonianza del dato reale, Claudia Cei invece elimina il dato reale e vi oppone quello immaginario, sur-reale. Da un lato quindi la morte (lasciata trapelare da una parte di scheletro che si oggettiva nella figura di Giovanni Arnolfini), dall’altro la nascita, simboleggiata dal feto rappresentato nel ventre di Giovanna Cenami. Sono queste due idee i pilastri che reggono la Storia, le due forze perenni che hanno suggellato un patto indissolubile tra loro, i concetti essenziali che nel clima contemporaneo di estremo relativismo culturale rimangono in piedi come sole, umili verità.

 

Interessante allora notare come Cei rielabori anche il tema dello specchio, che nel dipinto di Van Eych ha un ruolo fondamentale.

 

Mentre in Ritratto dei coniugi Arnolfini infatti il pittore fiammingo lo utilizza come elemento realistico per eccellenza dipingendo la coppia di spalle e il rovescio della stanza e finendo con l’auto-ritrarre anche se stesso, Cei invece isola il dettaglio che – nel suo caso – si trasforma in un comunissimo specchio da mano e lo rende protagonista di un’intera opera attraversata da una vena di stupore surreale.

 

Infatti lo specchio – unico elemento dipinto ad olio – è poggiato su un cavalletto appena disegnato con la matita e il viso dell’artista risulta misteriosamente riflesso, nonostante la mancanza fisica della pittrice. Come a dire che tra arte e vita c’è un legame indissolubile e la riflessione sull’esistenza non può che avvenire attraverso l’azione quasi magica dell’arte stessa.

 

Se questa ripresa e rielaborazione personale degli archetipi dell’arte attraverso lo strumento della citazione rendono già l’artista artefice di un’operazione linguistica “postmoderna”, ad avvalorare quest’idea è un altro tema che compare insistentemente: il labirinto, visto come simbolo dell’assurdità oppressiva delle sovrastrutture e come emblema dell’indecifrabilità della vita. Non più dunque luogo fisico ma spazio mentale.

 

L’artista, in un ampio ciclo di opere, ha infatti analizzato il mito del Minotauro traendo spunto dalla rilettura di Julio Cortázar.
Svuotato della sua tradizionale aggressività e irrazionalità distruttrice, il mostro mezzo toro e mezzo uomo è ora proposto come personaggio vinto dalla società, costretto a portarsi addosso una maschera pesante come un macigno.

 

Lo si vede bene in opere come Minotauro, del 2006, dove attraverso un taglio fotografico della composizione l’attenzione dello spettatore viene catturata dal cranio del Minotauro, tenuto da una mano all’altezza del fianco di un corpo nudo, come un peso da sostenere con malinconica accettazione.

 

Oppure nelle sculture del 2009, sempre ispirate a questo mito, dove figure sottili che ricordano Giacometti portano o trascinano dietro di sé un teschio di toro significativamente sproporzionato, esageratamente grande, fardello fatale e ineliminabile.

 

A dominare è il silenzio, una dimensione soprannaturale, che carica di sacralità ogni particolare tanto pittorico quanto scultoreo. Un senso di religiosità che nell’artista rimane intatto anche laddove i lavori si caricano di una spinta sociale meno sottaciuta.

 

Vengono in mente dipinti come Absence del 2009 o El sueño de la razon produce… del 2007. Qui si medita sull’opportunità della pena di morte attraverso due immagini di strumenti di punizione: da un lato una ghigliottina e, dall’altro, una sedia elettrica.

 

In entrambe i casi la figura umana è assente anche se la sua presenza è lasciata intuire dalla posizione delle cinghie sciolte della sedia e dalla lama della ghigliottina apparentemente pronta per agire. Eppure, anche qui, non c’è la volontà di scioccare o scandalizzare lo spettatore con immagini dall’alto impatto emotivo, che puntano tutto sul realismo esasperato e sul senso di repulsione e di disgusto. Anche la macchia di sangue posta ai piedi della ghigliottina non si tinge di toni cruenti ma si inserisce anzi in una dimensione totalmente spirituale, quasi sacrificale.

 

L’obiettivo è allora testimoniare, spingere chi osserva ad utilizzare la ragione come strumento di analisi introspettiva e di catarsi. L’insensatezza del reale e la sua incomprensibilità, non essendo percepite dall’artista attraverso una drammaticità violenta, sono convertite in quel “nichilismo morbido” che è un po’ il leitmotiv della nostra società.

 

Sempre alla ricerca di segni, d’indizi, di un filo rosso di Arianna che aiuti a districarsi entro i labirinti complessi e crudeli del mondo, il Minotauro – verrebbe allora da dire – è l’artista. Siamo, forse, tutti noi. Condannati, alla fine, ad imboccare porte che non portano da nessuna parte se non a frammenti disarticolati e incomprensibili di verità.